*Higinio
Polo
Traduzione
da ciptagarelli.jimdo.com
Uno dei tratti che appare con frequenza in diversi paesi è la nascita di movimenti di protesta che, a differenza di quelli di cui storicamente era protagonista la sinistra, esigono ora, insieme a confusi reclami di libertà e di onorabilità delle istituzioni e nella vita pubblica, un avvicinamento all'Unione Europea o all' "Occidente", identificato oscuramente con gli Stati Uniti. Queste peculiari ribellioni coesistono con altre che rispondono al tradizionale atteggiamento dei movimenti popoplari, benchè il suo carattere sia cambiato come anche molti dei suoi protagonisti. Alcune di queste culminano in colpi di Stato e rovesciamento di governi. Il ricorso ai colpi di Stato non è nuovo, ma lo è invece la forma del cambiamento del governo: sanguinosi colpi di forza convenzionali, di cui erano protagonisti i militari come quelli del Cile con Pinochet, dell'Argentina con Videla e tanti altri simili, così poco presentabili e che smentivano recisamente il presunto appoggio degli Stati Uniti e dei loro soci alla libertà e alla democrazia, sembrano lasciare il passo a provocazioni, colpi di Stato mascherati da rivolte popolari: l'Ucraina è il loro modello più di successo fino ad oggi.
Queste provocazioni sono state organizzate in Serbia, Georgia, Moldavia; Bielorussia, Ucraina, Kirghisistan, Venezuela, come in altri paesi, e si sono incoraggiati movimenti di protesta in Russia (che non hanno nulla a che vedere con le richieste della sinistra), a Cuba, in Venezuela, in regioni della Cina con movimenti nazionalisti come lo Xinjang e il Tibet, sempre con diversa fortuna, ricorrendo al finanziamento di forze interne, all'intervento di organismi occidentali e a ONG quasi sempre dell'orbita nordamericana, e alla stimolazione di movimenti di opposizione da parte dei servizi segreti e della diplomazia. Che Washington (e alcuni dei suoi soci: Polonia, Francia, Arabia ecc.) intervenga concretamente in un paese non significa che non esistano motivi di agitazione e di insoddisfazione a volte, anche, giustificati. Gli Stati Uniti e alcuni dei loro alleati non creano dal niente i movimenti di protesta: agiscono sempre su un fermento di sfiducia, di stanchezza ma sviluppano e finanziano quelle proteste come un fattore in più della loro politica estera.
Così la cosiddetta "rivoluzione twitter" in Moldavia nell'aprile 2009 ebbe origine nelle proteste per la vittoria del Partito Comunista alle elezioni, una vittoria pulita ma non accettata dall'elettorato di destra (che arrivò ad assaltare e incendiare il parlamento), frustrato per quello che considerava un allontanamento dalla sua desiderata prospettiva di unione con la Romania e di ingresso nell'Unione Europea, che reclamò la ripetizione delle elezioni. A sua volta in Ucraina la stanchezza popolare per la corruzione del governo di Yanukovich era reale (una corruzione simile, d'altra parte, a quella prodottasi con i governi "arancioni" di Yushenko e Timoshenko, ora di nuovo al potere), così come la partecipazione alle proteste di alcuni settori che non si identificavano con il nazionalismo fascista di Svoboda o di Pravy Sektor, ma che erano più vicini ad una vaga sinistra ... nonostate abbia finito pre prevalere la brutalità nazi e fascista che ora pattuglia le strade di Kiev. Il colpo di Stato in Ucraina, che i grandi mezzi di comunicazione internazionali stanno trasformando nella "invasione della Crimea", è la falla più preoccupante di quante ne appaiono oggi sullo scenario politico internazionale. L'Unione Europea e gli Stati Uniti non solo hanno appoggiato un colpo di Stato, ma hanno partecipato alla sua gestazione. I franchi tiratori che assassinavano i poliziotti e i manifestanti sono stati arruolati dall'opposizione, come ora sappiamo, dopo aver commosso il mondo attribuendo la responsabilità al deposto Yanukovich.
Non è la prima provocazione, nè sarà l'ultima, alla periferia russa. Nel gennaio 1991 a Vilna, Ucraina, ancora teritorio sovietico, una mattanza di quattordici persone davanti alla torre della televisione commosse il mondo e tutta la stampa accusò l'esercito sovietico e il governo di Mosca. Oggi sappiamo che si trattò di una mattanza provocata dai nazionalisti del Sajudis e dallo stesso governo lituano per accusare l'Unione Sovietica e, tra dolore e commozione, precipitare l'indipendenza (si veda l'intervista a Audrius Butkevicius, responsabile militare dell'allora governo lituano, in cui egli riconosce la paternità della provocazione). Le prove sui franchi tiratori sospetti sono state ignorate, e nè l'Unione Europea nè gli Stati Uniti (meno ancora il governo golpista di Yatseniuk) esigono l'apertura di un'inchiesta.
L'arrivo di ministri di estrema destra nel governo ucraino, e la persecuzione politica di coloro che sono accusati di essere "seguaci della Russia", con assassinii e roghi delle case degli oppositori dovrebbe allarmare tutto il continente; non a caso dirigenti fascisti come Andrei Parubii controllano l'esercito, la polizia e i servizi segreti. Alexander Yakimenko. Responsabile dei servizi di sicurezza sotto il presidente rovesciato Yanukovic, egli ha rivelato che l'azione dei franchi tiratori che diedero vita ad una mattanza di manifestanti e poliziotti il 20 febbraio è stata una provocazione organizzata dal "comandante" di Maidan, Andrei Parubii, in coordinazione con l'ambasciata americana. Parubii è un veterano organizzatore di milizie fasciste e di gruppi neonazisti. Gli spari vennero dall'edificio della Filarmonica di Kiev che era controllato da uomini armati dipendenti da Parubii. Altri franchi tiratori ai suoi ordini erano appostati all'Hotel Kiev. L'edificio dell'hotel domina tutta la piazza Maidan, e l'edificio della Filarmonica si trova alla sua destra, nella vicina piazza Yevropeis'ka. Di fatto le parole di Yakimenko confermano la conversazione filtrata tra il ministro degli Esteri estone, Urmas Paet, e Catherine Ashton, in cui incolpavano l'opposizione di aver assoldato i mercenari franco-tiratori che hanno causato la strage. Il nuovo governo golpista ucraino ha nominato Parubii segretario alla Sicurezza Nazionale, posto da cui controlla il Ministero della Difesa e le forze armate. I servizi segreti nordamericani, d'accordo con la Polonia e in campi di addestramento polacchi, lettoni e lituani, hanno organizzato la logistica per dare impulso al colpo di Stato in Ucraina. Il generoso finanziamento della rivolta è arrivato dai paesi europei, dagli Stati Uniti e dagli oligarchi ucraini. Una lunga intromissione negli affari interni ucraini, attraverso le ONG, agenzie nordamericane e il finanziamento di gruppi violenti apertamente fascisti e nazisti, sono confluiti in Maidan.
La provocazione e la crisi hanno forzato gli accordi tra Yanukovich e l'opposizione, suggeriti dai ministri degli Esteri di Germania, Polonia e Francia ... accordi che sono stati ignorati immediatamente dai teppisti di Maidan, diretti dall'ambasciata nordamericana. La passività dell'esercito, e la ritirata della polizia in applicazione degli accordi, hanno lasciato senza difesa il governo di Yanukovich, che ha assistito impotente all'occupazione del parlamento e degli edifici del governo da parte dei gruppi armati fascisti. Così il colpo di Stato ha trionfato. Della stoffa dei nuovi dirigenti di Kiev parla con eloquenza la conversazione filtrata di Timoshenko, dove dice: "Bisogna prendere le armi e ammazzare i maledetti russi".
Lo sbarco del FMI comincia già a farsi notare: 25.000 funzionari saranno licenziati, le tasse aumenteranno tanto quanto le misure di austerità e i tagli sociali, che verranno immediatamente approvati, e i soldati nordamericani e della NATO potranno entrare in Ucraina. L'Ucraina è una pedina importante della scacchiera internazionale, ma ce ne sono altre, nella complessa disputa per gli ambiti di influenza. Gli Stati Uniti, con l'opportunistica politica estera che stanno sviluppando, sempre in cerca di vantaggi, sono riusciti a trasformare per il grande pubblico il colpo di Stato ucraino nella "crisi di Crimea", dove hanno guardato impotenti il fallimento del loro ambizioso proposito (non nascosto, ma poco evidente) di sloggiare l'Armata russa da Sebastopoli, privandola così di buona parte della sua capacità di manovra e rendendole difficile l'accesso al mar Mediterraneo.
Le relazioni tese tra Washington e Mosca non escludono il negoziato e la possibilità di accordi in altri scenari. Così succede in Afganistan, con la ritirata delle forze nordamericane, dopo più di un decennio di occupazione che lasciano un paese distrutto che può finire in una situazione fuori controllo, nell'aumento dell'instabilità del paese e di buona parte dell'Asia centrale. Le elezioni presidenziale del 2014 non cambieranno in sostanza i rischi che il paese affronta: la ritirata nordamericana, dopo l'accordo sulla sicurezza raggiunto tra Karzai e gli USA, non garantisce l'inizio di un dopoguerra pacifico: nè tutti i talebani sono d'accordo a negoziare con Karzai nè le forze addestrate da Washington, che si faranno carico della sicurezza del paese, possono assicurare il controllo su tutto il territorio. Karzai cerca garanzie nordamericane per evitare il vortice dell'inizio di nuovi scontri aperti con gli islamisti; a sua volta
Washington pretende di mantenere un governo cliente (anche se Karzai persegue i suoi propri fini ed è pressato dalla situazione interna) che salvaguardi i suoi interessi e che i talebani non rinuncino a recuperare il potere. L'ipotesi di negoziati di pace tra il governo Karzai e i talebani per una spartizione del governo e del territorio non può essere scartata. La Russia e la Cina temono una maggiore destabilizzazione del territorio e l'espansione dell'islamismo radicale. Gli Stati Uniti, che hanno giocato il ruolo di apprendisti stregoni spingendo il fanatismo islamista, non vogliono assumersi responsabilità.
In Siria, dove la guerra civile ha distrutto buona parte del paese, Washington ricerca il rovesciamento di Bashar al-Assad, la rottura dell'alleanza sirio-iraniana che influisce sull'Iraq, sul Libano e su minoranze del Medio Oriente e la resa dell'ultimo alleato di Mosca nella zona. Anche qui gli USA hanno fatto ricorso al finanziamento di gruppi terroristici, che si sono aggiunti alle iniziali proteste pacifiche, che erano una mescolanza di richieste civiche e economiche, e di gruppi diretti e finanziati dai servizi segreti occidentali. La trasformazione di proteste pacifiche limitate in gruppi armati e insorti finanziati dall'estero (Arabia, Qatar, Stati Uniti) e addestrati in Turchia, Arabia e Giordania è culminata nella sanguinosa guerra civile della quale Washington non riconosce alcuna responsabilità.
La possibilità di un intervento diretto statunitense non può essere ancora scartata. Di fatto gli Stati Uniti (insieme alla Francia) sono stati sul punto di attaccare la Siria nell'estate 2013, attacco che si fermò grazie all'abilità diplomatica russa e all'apertura di uno scenario di negoziati a Ginevra che, nonostante il suo incerto futuro, Washignton non poteva ignorare. La distruzione dell'arsenale chimico siriano accettata da Damasco, e il giro di discussioni a Ginevra, è stata accompagnata dal retrocedere delle forze islamiste e dell'insieme appoggiato dall'Occidente e da alcuni paesi arabi. L'esercito siriano sta cominciando a controllare la situazione, anche se nulla è irreversibile: Bashar al-Assad affronta gruppi fanatici di islamisti, gli USA non rinunciano al suo rovesciamento o, almeno, al suo ritiro patteggiato. L'Iran concentra su di sè buona parte delle preoccupazioni di Washington. I negoziati aperti con Teheran, che hanno fatto affiorare differenze tra Stati Uniti da una parte e Israele e Arabia Saudita dall'altra, dipendono dall'evoluzione della guerra civile in Siria, dalla definizione di obiettivi da parte di Washington (con criteri diversi tra il Pentagono e il Dipartimento di Stato), dagli equilibri interni tra Alì Kamenei e Hassan Rouhani, e dall'atteggiamento di Russia e Cina. Senza dubbio Mosca, che mantiene buone relazioni con Teheran, terrà conto dell'opportunistica politica nordamericana che, in Ucraina, non ha tenuto in alcun conto gli interessi russi. Allo stesso tempo l'Arabia, discreto e potente attore regionale, è afflitta dall'abbandono di Mubarak da parte USA: la rivolta egiziana ha colto di sorpresa Washington, che non ha avuto esitazioni a prendere le distanze dal dittatore che aveva appoggiato per anni ... per prendere posizione sul nuovo scenario: ci è riuscita, e il prevedibile arrivo al potere del generale Abdul Fatah al-Sisi ricompone la sua influenza in Egitto.
L'Arabia non ha fiducia nei risultati di negoziati incerti con l'Iran, e mantiene il suo rifiuto dell'emergenza iraniana nella zona, tratto che la avvicina a Israele, la cui attenzione è sempre centrata sull'oppressione del popolo palestinese e nel contenimento di Teheran.
In Iraq l'occupazione militare nordamericana, la guerra e la distruzione del paese hanno causato più di un milione e mezzo di morti, e milioni di rifugiati. Gli Stati Uniti hanno utilizzato armamento proibito: dall'agente orange all'uranio impoverito, violando le convenzioni internazionali. Il governo imposto di al-Maliki continua le pratiche nordamericane dei bombardamenti sulla popolazione civile, ma la situazione, con costanti proteste popolari, è volatile e uno dei paradossi di un decennio di occupazione militare nordamericana è il rafforzamento dell'influenza iraniana nel paese. In tutto questo grande arco che va dall'Afganistan alla Siria, passando per l'Iran e l'Iraq, gli Stati Uniti hanno bisogno della buona volontà di Mosca e della sua collaborazione per il passaggio di truppe e materiali da guerra, come illustrano le facilitazioni concesse dal governo russo alla NATO a Ulianovsk, vicino al Kazakistan.
La Cina, un altro importante protagonista, ha mantenuto una posizione discreta davanti alla crisi ucraina, preoccupata dell'intromissione nordamericana negli affari interni di altri paesi, ma anche per l'apparizione di nuove frontiere, con il seguito di scontri e instabilità internazionale che vuole evitare ad ogni costo, anche se questo non impedisce che tracci le sue proprie linee rosse.
Washington cerca di fermare il rafforzamento cinese, e disegna un nuovo equilibrio nella grande regione Asia-Pacifico che, per amore o per forza, non può ignorare la Cina. La politica di Washington passa per il rafforzamento della sua alleanza con il Giappone, la Corea del Sud e le Filippine, mentre prosegue con la sua strategia, non meno decisa per quanto cauta, di avvicinamento a India, Birmania e Vietnam, con l'obiettivo di unirli in un fronte anti-cinese e far pressione nella penisola coreana con successive esercitazioni militari congiunte con Seul, che non contribuiscono alla stabilità e aumentano l'incertezza. Tuttavia i suoi alleati hanno la loro propria agenda e i loro interessi: anche il docile Giappone affila il suo nazionalismo, provoca la Cina a Yasukuni e scommette sul rafforzamento el suo esercito e su una riforma costituzionale che chiuderebbe con il periodo aperto con la fine della II Guerra Mondiale. Washington sostiene il Giappone ma controlla i suoi movimenti perchè la preoccupa la possibilità che una poco calcolata scommessa giapponese danneggi la sua pianificazione strategica e i suoi interessi in Asia, mentre rafforza il suo dispositivo militare nella zona e manovra perché il dollaro continui ad avere la sua funzione di moneta di riserva e di interscambio internazionale a fronte del rafforzamento economico dell'Asia orientale e della moneta cinese.
L'America Latina continua ad essere uno scenario secondario per le grandi potenze, anche se dall'esito definitivo della rivoluzione bolivariana in Venezuela discenderebbero molte conseguenze per il resto del continente e per il mondo. In Venezuela, in maniera simile a come hanno fatto in Ucraina, gli USA spingono una politica di minaccia contro il governo Maduro e hanno diverse agenzie che collaborano con l'opposizione venezuelana: la USAID, la CIA, la NSA o la NED, National Endowment for Democracy.
Washington ha già collaborato nel colpo di Stato del 2002 quando, dopo l'arresto di Chàvez, aveva preteso di imporre l'effimero Carmona. Ora lo fa non solo finanziando campagne, ma consigliando l'opposizione, spingendo una strategia controllata di tensione nelle piazze e di stimolo della ribellione tra i militari, dove Maduro non ha la stessa influenza che aveva Chàvez. Un aspetto della strategia di minaccia e del dominio dell'agenda politica internazionale è la disinformazione, che offre attraverso la sua potente stampa una visione distorta del paese, che viene presentato come una dittatura nonostante che il Chavismo abbia vinto in modo limpido tutte le elezioni convocate nell'ultimo decennio.
La politica nordamericana opera su una parte della popolazione che rifiuta la rivoluzione Bolivariana, mentre la scalata di violenza nel paese favorisce la presentazione internazionale di un quadro di crisi acuta e spinge i settori che, a fronte delle vittorie elettorali chaviste, speculano su un colpo di Stato capace di sloggiare Maduro dal governo. Gli Stati Uniti perseguono la disarticolazione dell'asse latinoamericano tracciato attorno a Cuba e al Venezuela, scommettono sulla stimolazione delle proteste civili in quei paesi, sull'approfondimento della scarsità di prodotti alimentari e di prima necessità grazie alla loro collaborazione con settori imprenditoriali legati all'opposizione di destra venezuelana, con l'intenzione di acutizzare la crisi in uno scenario dove non si scarta neppure l'ipotesi di un colpo di forza. Gli obiettivi sono tre: la distruzione della rivoluzione Bolivariana, una nuova sconfitta della sinistra latinoamericana articolata attorno all'asse Caracas-l'Avana e il controllo del petrolio venezuelano. La Bolivia ha un'importanza marginale nello scenario strategico americano, anche se, insieme all'Ecuador e al Nicaragua, alleati di Cuba e Venezuela, entrano anch'essi nella pianificazione destabilizzatrice di Washington.
Dopo il fallimento delle avventure militari in Afganistan e in Iraq, che non hanno risolto alcuno dei problemi della zona (nè il terrorismo, nè il narcotraffico, nè l'instabilità politica e militare, nè hanno fatto avanzare la libertà, i diritti delle donne o le istituzioni democratiche, come tante volte hanno proclamato i pubblicisti nordamericani), il governo statunitense ha deciso di utilizzare con più misura le sue forze militari, anche senza rinunciare ad esse, e di promuovere i suoi obiettivi politici con altri mezzi: pressioni diplomatiche, ricatto di Stato, azioni mercenarie, provocazioni, colpi di Stato. Per conseguire i suoi fini, il governo nordamericano non ha la minima remora a mentire. Anche lo stesso Obama ha mentito quando, durante la sua visita a Bruxelles di fine marzo 2014, ha affermato che il Kossovo aveva acquisito l'indipendenza attraverso un referendum su cui ci si era accordati tra i paesi interessati e l'ONU; referendum che mai ha avuto luogo, visto che la secessione della provincia serba è stata dovuta ad un pronunciamento unilaterale del governo e del parlamento kossovaro, preceduta dai bombardamenti della NATO sui resti della Yugoslavia, senza l'autorizzazione dell'ONU.
La retorica libertaria di Washington nasconde un'azione che - nonostante non sia nota - non è meno pericolosa per la pace e la stabilità internazionali. L'utilizzo di droni per effettuare assassinii selettivi e bombardamenti sulla popolazione civile, il ricorso allo spionaggio, le intercettazioni illegali, il finanziamento di gruppi armati che possono favorire i suoi interessi all'interno di una concezione di "guerra non convenzionale", presiedono a molti dei progetti del Pentagono e della Casa Bianca. Le loro forze di operazioni speciali, e i suoi gruppi di commandos, continueranno ad essere strumento della politica estera nordamericana, come dimostra l'attività dello United States Special Operations Command, commando di operazioni speciali con base in Florida, che agisce in diverse parti del mondo.
Resta peculiare che un paese come gli Stati Uniti, che mantiene un campo di concentramento illegale come Guantànamo, che ha organizzato una rete militare clandestina per il sequestro di persone in varie parti del mondo, che ha promosso la creazione di carceri segrete in paesi come Polonia, Romania, Lettonia, Repubblica Ceca, Egitto, Algeria, Thailandia, Afganistan, Pakistan, Libia, Marocco, in connivenza con i governi di quei paesi; che ha consegnato prigionieri ad altri paesi perchè fossero interrogati e torturati; un paese che ha una kill list segreta, che firma il presidente Obama, per compiere esecuzioni di persone in qualsiasi luogo del pianeta senza alcun controllo giudiziario; un paese che ha organizzato una rete di spionaggio mondiale, rivelata da Snowden; che vulnera le leggi internazionali ed i diritti umani, e che ha violato la risoluzione dell'ONU sulla Libia per assassinare Gheddafi, come precedentemente aveva invaso l'Afganista e l'Iraq; che un paese così si attribuisca la funzione di severo giudice planetario sulla libertà e i comportamenti democratici è, quanto meno, sorprendente.
Nel complesso scenario internazionale, non si possono scartare accordi parziali, dovuti agli obiettivi di lungo periodo. Così Washington, senza rinunciare ad utilizzare tutte le sue risorse, continuerà il suo avvicinamento all'Iran, anche se questo danneggia le sue relazioni con Israele e con l'Arabia; vuole arrivare a patti per la Siria, senza cedere alla sua esigenza dell'uscita di scena di Bashar al-Assad e continuerà impassibile davanti alla sofferenza palestinese senza aumentare la sua pressione su Tel Aviv e senza fare una scommessa seria sulla creazione di due Stati alle frontiere della Palestina storica. Gli Stati Uniti sono disposti ad arrivare ad un accordo diplomatico in Ucraina accettando l'incorporazione della Crimea alla Russia ma senza rinunciare all'espansione della NATO, per conseguire a medio periodo l'avvicinamento di Kiev all'Unione Europea e la rottura definitiva dei suoi legami con Mosca, senza transigere con la federalizzazione del paese nè con il rispetto degli interessi russi. In Venezuela, al contrario, gli Stati Uniti continuano a spingere una politica aggressiva che ha un solo obiettivo: il rovesciamento del chavismo e la sconfitta della rivoluzione bolivariana, mentre osservano i movimenti di Raùl castro e le nuove opzioni aperte dal governo cubano, coscienti del fallimento della loro vecchia politica del blocco.
La crisi ucraina non è stata cominciata da Mosca. Ora il governo golpista ucraino, gli Stati Uniti e l'Unione Europea non vogliono nemmeno sentir parlare dela creazione di una commissione internazionale che investighi sugli assassinii per mano dei franchi tiratori di Kiev. Così se la marmaglia nazista può impunemente sfilare a Kiev e in altre città ucraine, non meraviglia nemmeno che veterani nazisti delle Waffen-SS sfilino a Riga, protetti dai ministri del governo lettone, come hanno fatto nel marzo 2014.
La responsabilità dell'Unione Europea e degli Stati Uniti nell'aver reso possibile l'arrivo di ministri apertamente fascisti al governo di un paese europeo è evidente, così come l'aver fornito copertura diplomatico e successivo appoggio ad un governo golpista, ma nè le denunce giornalistiche nè il ricorso alle istituzioni internazionali faranno sì che Washington rinunci all'utilizzo di compagnie di mercenari, gruppi terroristici e colpi di Stato patrocinati da "movimenti democratici".
La retorica nordamericana ed europea sulla libertà e la democrazia sono solo una trappola per incauti, per quanto queste idee siano anche una giusta e onorevole aspirazione per la maggioranza dell'umanità. La politica internazionale non si spiega con le teorie della cospirazione, ma con brutali interessi nazionali che, a volte, si difendono con mercenari e golpisti. Washington ha fra i suoi obiettivi l'ampliamento militare della NATO a Est, il controllo dei flussi di idrocarburi e la ricerca di mercati e opportunità di affari per le sue multinazionali, senza dimenticare che non ha rinunciato alla spartizione della stessa Russia.
Dall'Ucraina al Venezuela i mercenari preparano mezzi e arsenali, e il Dipartimento di Stato muove le pedine sulla scacchiera.
*) Docente di Storia Contemporanea dell'Università di Barcellona, saggista e scrittore.
Traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria "G.Tagarelli" Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni
Uno dei tratti che appare con frequenza in diversi paesi è la nascita di movimenti di protesta che, a differenza di quelli di cui storicamente era protagonista la sinistra, esigono ora, insieme a confusi reclami di libertà e di onorabilità delle istituzioni e nella vita pubblica, un avvicinamento all'Unione Europea o all' "Occidente", identificato oscuramente con gli Stati Uniti. Queste peculiari ribellioni coesistono con altre che rispondono al tradizionale atteggiamento dei movimenti popoplari, benchè il suo carattere sia cambiato come anche molti dei suoi protagonisti. Alcune di queste culminano in colpi di Stato e rovesciamento di governi. Il ricorso ai colpi di Stato non è nuovo, ma lo è invece la forma del cambiamento del governo: sanguinosi colpi di forza convenzionali, di cui erano protagonisti i militari come quelli del Cile con Pinochet, dell'Argentina con Videla e tanti altri simili, così poco presentabili e che smentivano recisamente il presunto appoggio degli Stati Uniti e dei loro soci alla libertà e alla democrazia, sembrano lasciare il passo a provocazioni, colpi di Stato mascherati da rivolte popolari: l'Ucraina è il loro modello più di successo fino ad oggi.
Queste provocazioni sono state organizzate in Serbia, Georgia, Moldavia; Bielorussia, Ucraina, Kirghisistan, Venezuela, come in altri paesi, e si sono incoraggiati movimenti di protesta in Russia (che non hanno nulla a che vedere con le richieste della sinistra), a Cuba, in Venezuela, in regioni della Cina con movimenti nazionalisti come lo Xinjang e il Tibet, sempre con diversa fortuna, ricorrendo al finanziamento di forze interne, all'intervento di organismi occidentali e a ONG quasi sempre dell'orbita nordamericana, e alla stimolazione di movimenti di opposizione da parte dei servizi segreti e della diplomazia. Che Washington (e alcuni dei suoi soci: Polonia, Francia, Arabia ecc.) intervenga concretamente in un paese non significa che non esistano motivi di agitazione e di insoddisfazione a volte, anche, giustificati. Gli Stati Uniti e alcuni dei loro alleati non creano dal niente i movimenti di protesta: agiscono sempre su un fermento di sfiducia, di stanchezza ma sviluppano e finanziano quelle proteste come un fattore in più della loro politica estera.
Così la cosiddetta "rivoluzione twitter" in Moldavia nell'aprile 2009 ebbe origine nelle proteste per la vittoria del Partito Comunista alle elezioni, una vittoria pulita ma non accettata dall'elettorato di destra (che arrivò ad assaltare e incendiare il parlamento), frustrato per quello che considerava un allontanamento dalla sua desiderata prospettiva di unione con la Romania e di ingresso nell'Unione Europea, che reclamò la ripetizione delle elezioni. A sua volta in Ucraina la stanchezza popolare per la corruzione del governo di Yanukovich era reale (una corruzione simile, d'altra parte, a quella prodottasi con i governi "arancioni" di Yushenko e Timoshenko, ora di nuovo al potere), così come la partecipazione alle proteste di alcuni settori che non si identificavano con il nazionalismo fascista di Svoboda o di Pravy Sektor, ma che erano più vicini ad una vaga sinistra ... nonostate abbia finito pre prevalere la brutalità nazi e fascista che ora pattuglia le strade di Kiev. Il colpo di Stato in Ucraina, che i grandi mezzi di comunicazione internazionali stanno trasformando nella "invasione della Crimea", è la falla più preoccupante di quante ne appaiono oggi sullo scenario politico internazionale. L'Unione Europea e gli Stati Uniti non solo hanno appoggiato un colpo di Stato, ma hanno partecipato alla sua gestazione. I franchi tiratori che assassinavano i poliziotti e i manifestanti sono stati arruolati dall'opposizione, come ora sappiamo, dopo aver commosso il mondo attribuendo la responsabilità al deposto Yanukovich.
Non è la prima provocazione, nè sarà l'ultima, alla periferia russa. Nel gennaio 1991 a Vilna, Ucraina, ancora teritorio sovietico, una mattanza di quattordici persone davanti alla torre della televisione commosse il mondo e tutta la stampa accusò l'esercito sovietico e il governo di Mosca. Oggi sappiamo che si trattò di una mattanza provocata dai nazionalisti del Sajudis e dallo stesso governo lituano per accusare l'Unione Sovietica e, tra dolore e commozione, precipitare l'indipendenza (si veda l'intervista a Audrius Butkevicius, responsabile militare dell'allora governo lituano, in cui egli riconosce la paternità della provocazione). Le prove sui franchi tiratori sospetti sono state ignorate, e nè l'Unione Europea nè gli Stati Uniti (meno ancora il governo golpista di Yatseniuk) esigono l'apertura di un'inchiesta.
L'arrivo di ministri di estrema destra nel governo ucraino, e la persecuzione politica di coloro che sono accusati di essere "seguaci della Russia", con assassinii e roghi delle case degli oppositori dovrebbe allarmare tutto il continente; non a caso dirigenti fascisti come Andrei Parubii controllano l'esercito, la polizia e i servizi segreti. Alexander Yakimenko. Responsabile dei servizi di sicurezza sotto il presidente rovesciato Yanukovic, egli ha rivelato che l'azione dei franchi tiratori che diedero vita ad una mattanza di manifestanti e poliziotti il 20 febbraio è stata una provocazione organizzata dal "comandante" di Maidan, Andrei Parubii, in coordinazione con l'ambasciata americana. Parubii è un veterano organizzatore di milizie fasciste e di gruppi neonazisti. Gli spari vennero dall'edificio della Filarmonica di Kiev che era controllato da uomini armati dipendenti da Parubii. Altri franchi tiratori ai suoi ordini erano appostati all'Hotel Kiev. L'edificio dell'hotel domina tutta la piazza Maidan, e l'edificio della Filarmonica si trova alla sua destra, nella vicina piazza Yevropeis'ka. Di fatto le parole di Yakimenko confermano la conversazione filtrata tra il ministro degli Esteri estone, Urmas Paet, e Catherine Ashton, in cui incolpavano l'opposizione di aver assoldato i mercenari franco-tiratori che hanno causato la strage. Il nuovo governo golpista ucraino ha nominato Parubii segretario alla Sicurezza Nazionale, posto da cui controlla il Ministero della Difesa e le forze armate. I servizi segreti nordamericani, d'accordo con la Polonia e in campi di addestramento polacchi, lettoni e lituani, hanno organizzato la logistica per dare impulso al colpo di Stato in Ucraina. Il generoso finanziamento della rivolta è arrivato dai paesi europei, dagli Stati Uniti e dagli oligarchi ucraini. Una lunga intromissione negli affari interni ucraini, attraverso le ONG, agenzie nordamericane e il finanziamento di gruppi violenti apertamente fascisti e nazisti, sono confluiti in Maidan.
La provocazione e la crisi hanno forzato gli accordi tra Yanukovich e l'opposizione, suggeriti dai ministri degli Esteri di Germania, Polonia e Francia ... accordi che sono stati ignorati immediatamente dai teppisti di Maidan, diretti dall'ambasciata nordamericana. La passività dell'esercito, e la ritirata della polizia in applicazione degli accordi, hanno lasciato senza difesa il governo di Yanukovich, che ha assistito impotente all'occupazione del parlamento e degli edifici del governo da parte dei gruppi armati fascisti. Così il colpo di Stato ha trionfato. Della stoffa dei nuovi dirigenti di Kiev parla con eloquenza la conversazione filtrata di Timoshenko, dove dice: "Bisogna prendere le armi e ammazzare i maledetti russi".
Lo sbarco del FMI comincia già a farsi notare: 25.000 funzionari saranno licenziati, le tasse aumenteranno tanto quanto le misure di austerità e i tagli sociali, che verranno immediatamente approvati, e i soldati nordamericani e della NATO potranno entrare in Ucraina. L'Ucraina è una pedina importante della scacchiera internazionale, ma ce ne sono altre, nella complessa disputa per gli ambiti di influenza. Gli Stati Uniti, con l'opportunistica politica estera che stanno sviluppando, sempre in cerca di vantaggi, sono riusciti a trasformare per il grande pubblico il colpo di Stato ucraino nella "crisi di Crimea", dove hanno guardato impotenti il fallimento del loro ambizioso proposito (non nascosto, ma poco evidente) di sloggiare l'Armata russa da Sebastopoli, privandola così di buona parte della sua capacità di manovra e rendendole difficile l'accesso al mar Mediterraneo.
Le relazioni tese tra Washington e Mosca non escludono il negoziato e la possibilità di accordi in altri scenari. Così succede in Afganistan, con la ritirata delle forze nordamericane, dopo più di un decennio di occupazione che lasciano un paese distrutto che può finire in una situazione fuori controllo, nell'aumento dell'instabilità del paese e di buona parte dell'Asia centrale. Le elezioni presidenziale del 2014 non cambieranno in sostanza i rischi che il paese affronta: la ritirata nordamericana, dopo l'accordo sulla sicurezza raggiunto tra Karzai e gli USA, non garantisce l'inizio di un dopoguerra pacifico: nè tutti i talebani sono d'accordo a negoziare con Karzai nè le forze addestrate da Washington, che si faranno carico della sicurezza del paese, possono assicurare il controllo su tutto il territorio. Karzai cerca garanzie nordamericane per evitare il vortice dell'inizio di nuovi scontri aperti con gli islamisti; a sua volta
Washington pretende di mantenere un governo cliente (anche se Karzai persegue i suoi propri fini ed è pressato dalla situazione interna) che salvaguardi i suoi interessi e che i talebani non rinuncino a recuperare il potere. L'ipotesi di negoziati di pace tra il governo Karzai e i talebani per una spartizione del governo e del territorio non può essere scartata. La Russia e la Cina temono una maggiore destabilizzazione del territorio e l'espansione dell'islamismo radicale. Gli Stati Uniti, che hanno giocato il ruolo di apprendisti stregoni spingendo il fanatismo islamista, non vogliono assumersi responsabilità.
In Siria, dove la guerra civile ha distrutto buona parte del paese, Washington ricerca il rovesciamento di Bashar al-Assad, la rottura dell'alleanza sirio-iraniana che influisce sull'Iraq, sul Libano e su minoranze del Medio Oriente e la resa dell'ultimo alleato di Mosca nella zona. Anche qui gli USA hanno fatto ricorso al finanziamento di gruppi terroristici, che si sono aggiunti alle iniziali proteste pacifiche, che erano una mescolanza di richieste civiche e economiche, e di gruppi diretti e finanziati dai servizi segreti occidentali. La trasformazione di proteste pacifiche limitate in gruppi armati e insorti finanziati dall'estero (Arabia, Qatar, Stati Uniti) e addestrati in Turchia, Arabia e Giordania è culminata nella sanguinosa guerra civile della quale Washington non riconosce alcuna responsabilità.
La possibilità di un intervento diretto statunitense non può essere ancora scartata. Di fatto gli Stati Uniti (insieme alla Francia) sono stati sul punto di attaccare la Siria nell'estate 2013, attacco che si fermò grazie all'abilità diplomatica russa e all'apertura di uno scenario di negoziati a Ginevra che, nonostante il suo incerto futuro, Washignton non poteva ignorare. La distruzione dell'arsenale chimico siriano accettata da Damasco, e il giro di discussioni a Ginevra, è stata accompagnata dal retrocedere delle forze islamiste e dell'insieme appoggiato dall'Occidente e da alcuni paesi arabi. L'esercito siriano sta cominciando a controllare la situazione, anche se nulla è irreversibile: Bashar al-Assad affronta gruppi fanatici di islamisti, gli USA non rinunciano al suo rovesciamento o, almeno, al suo ritiro patteggiato. L'Iran concentra su di sè buona parte delle preoccupazioni di Washington. I negoziati aperti con Teheran, che hanno fatto affiorare differenze tra Stati Uniti da una parte e Israele e Arabia Saudita dall'altra, dipendono dall'evoluzione della guerra civile in Siria, dalla definizione di obiettivi da parte di Washington (con criteri diversi tra il Pentagono e il Dipartimento di Stato), dagli equilibri interni tra Alì Kamenei e Hassan Rouhani, e dall'atteggiamento di Russia e Cina. Senza dubbio Mosca, che mantiene buone relazioni con Teheran, terrà conto dell'opportunistica politica nordamericana che, in Ucraina, non ha tenuto in alcun conto gli interessi russi. Allo stesso tempo l'Arabia, discreto e potente attore regionale, è afflitta dall'abbandono di Mubarak da parte USA: la rivolta egiziana ha colto di sorpresa Washington, che non ha avuto esitazioni a prendere le distanze dal dittatore che aveva appoggiato per anni ... per prendere posizione sul nuovo scenario: ci è riuscita, e il prevedibile arrivo al potere del generale Abdul Fatah al-Sisi ricompone la sua influenza in Egitto.
L'Arabia non ha fiducia nei risultati di negoziati incerti con l'Iran, e mantiene il suo rifiuto dell'emergenza iraniana nella zona, tratto che la avvicina a Israele, la cui attenzione è sempre centrata sull'oppressione del popolo palestinese e nel contenimento di Teheran.
In Iraq l'occupazione militare nordamericana, la guerra e la distruzione del paese hanno causato più di un milione e mezzo di morti, e milioni di rifugiati. Gli Stati Uniti hanno utilizzato armamento proibito: dall'agente orange all'uranio impoverito, violando le convenzioni internazionali. Il governo imposto di al-Maliki continua le pratiche nordamericane dei bombardamenti sulla popolazione civile, ma la situazione, con costanti proteste popolari, è volatile e uno dei paradossi di un decennio di occupazione militare nordamericana è il rafforzamento dell'influenza iraniana nel paese. In tutto questo grande arco che va dall'Afganistan alla Siria, passando per l'Iran e l'Iraq, gli Stati Uniti hanno bisogno della buona volontà di Mosca e della sua collaborazione per il passaggio di truppe e materiali da guerra, come illustrano le facilitazioni concesse dal governo russo alla NATO a Ulianovsk, vicino al Kazakistan.
La Cina, un altro importante protagonista, ha mantenuto una posizione discreta davanti alla crisi ucraina, preoccupata dell'intromissione nordamericana negli affari interni di altri paesi, ma anche per l'apparizione di nuove frontiere, con il seguito di scontri e instabilità internazionale che vuole evitare ad ogni costo, anche se questo non impedisce che tracci le sue proprie linee rosse.
Washington cerca di fermare il rafforzamento cinese, e disegna un nuovo equilibrio nella grande regione Asia-Pacifico che, per amore o per forza, non può ignorare la Cina. La politica di Washington passa per il rafforzamento della sua alleanza con il Giappone, la Corea del Sud e le Filippine, mentre prosegue con la sua strategia, non meno decisa per quanto cauta, di avvicinamento a India, Birmania e Vietnam, con l'obiettivo di unirli in un fronte anti-cinese e far pressione nella penisola coreana con successive esercitazioni militari congiunte con Seul, che non contribuiscono alla stabilità e aumentano l'incertezza. Tuttavia i suoi alleati hanno la loro propria agenda e i loro interessi: anche il docile Giappone affila il suo nazionalismo, provoca la Cina a Yasukuni e scommette sul rafforzamento el suo esercito e su una riforma costituzionale che chiuderebbe con il periodo aperto con la fine della II Guerra Mondiale. Washington sostiene il Giappone ma controlla i suoi movimenti perchè la preoccupa la possibilità che una poco calcolata scommessa giapponese danneggi la sua pianificazione strategica e i suoi interessi in Asia, mentre rafforza il suo dispositivo militare nella zona e manovra perché il dollaro continui ad avere la sua funzione di moneta di riserva e di interscambio internazionale a fronte del rafforzamento economico dell'Asia orientale e della moneta cinese.
L'America Latina continua ad essere uno scenario secondario per le grandi potenze, anche se dall'esito definitivo della rivoluzione bolivariana in Venezuela discenderebbero molte conseguenze per il resto del continente e per il mondo. In Venezuela, in maniera simile a come hanno fatto in Ucraina, gli USA spingono una politica di minaccia contro il governo Maduro e hanno diverse agenzie che collaborano con l'opposizione venezuelana: la USAID, la CIA, la NSA o la NED, National Endowment for Democracy.
Washington ha già collaborato nel colpo di Stato del 2002 quando, dopo l'arresto di Chàvez, aveva preteso di imporre l'effimero Carmona. Ora lo fa non solo finanziando campagne, ma consigliando l'opposizione, spingendo una strategia controllata di tensione nelle piazze e di stimolo della ribellione tra i militari, dove Maduro non ha la stessa influenza che aveva Chàvez. Un aspetto della strategia di minaccia e del dominio dell'agenda politica internazionale è la disinformazione, che offre attraverso la sua potente stampa una visione distorta del paese, che viene presentato come una dittatura nonostante che il Chavismo abbia vinto in modo limpido tutte le elezioni convocate nell'ultimo decennio.
La politica nordamericana opera su una parte della popolazione che rifiuta la rivoluzione Bolivariana, mentre la scalata di violenza nel paese favorisce la presentazione internazionale di un quadro di crisi acuta e spinge i settori che, a fronte delle vittorie elettorali chaviste, speculano su un colpo di Stato capace di sloggiare Maduro dal governo. Gli Stati Uniti perseguono la disarticolazione dell'asse latinoamericano tracciato attorno a Cuba e al Venezuela, scommettono sulla stimolazione delle proteste civili in quei paesi, sull'approfondimento della scarsità di prodotti alimentari e di prima necessità grazie alla loro collaborazione con settori imprenditoriali legati all'opposizione di destra venezuelana, con l'intenzione di acutizzare la crisi in uno scenario dove non si scarta neppure l'ipotesi di un colpo di forza. Gli obiettivi sono tre: la distruzione della rivoluzione Bolivariana, una nuova sconfitta della sinistra latinoamericana articolata attorno all'asse Caracas-l'Avana e il controllo del petrolio venezuelano. La Bolivia ha un'importanza marginale nello scenario strategico americano, anche se, insieme all'Ecuador e al Nicaragua, alleati di Cuba e Venezuela, entrano anch'essi nella pianificazione destabilizzatrice di Washington.
Dopo il fallimento delle avventure militari in Afganistan e in Iraq, che non hanno risolto alcuno dei problemi della zona (nè il terrorismo, nè il narcotraffico, nè l'instabilità politica e militare, nè hanno fatto avanzare la libertà, i diritti delle donne o le istituzioni democratiche, come tante volte hanno proclamato i pubblicisti nordamericani), il governo statunitense ha deciso di utilizzare con più misura le sue forze militari, anche senza rinunciare ad esse, e di promuovere i suoi obiettivi politici con altri mezzi: pressioni diplomatiche, ricatto di Stato, azioni mercenarie, provocazioni, colpi di Stato. Per conseguire i suoi fini, il governo nordamericano non ha la minima remora a mentire. Anche lo stesso Obama ha mentito quando, durante la sua visita a Bruxelles di fine marzo 2014, ha affermato che il Kossovo aveva acquisito l'indipendenza attraverso un referendum su cui ci si era accordati tra i paesi interessati e l'ONU; referendum che mai ha avuto luogo, visto che la secessione della provincia serba è stata dovuta ad un pronunciamento unilaterale del governo e del parlamento kossovaro, preceduta dai bombardamenti della NATO sui resti della Yugoslavia, senza l'autorizzazione dell'ONU.
La retorica libertaria di Washington nasconde un'azione che - nonostante non sia nota - non è meno pericolosa per la pace e la stabilità internazionali. L'utilizzo di droni per effettuare assassinii selettivi e bombardamenti sulla popolazione civile, il ricorso allo spionaggio, le intercettazioni illegali, il finanziamento di gruppi armati che possono favorire i suoi interessi all'interno di una concezione di "guerra non convenzionale", presiedono a molti dei progetti del Pentagono e della Casa Bianca. Le loro forze di operazioni speciali, e i suoi gruppi di commandos, continueranno ad essere strumento della politica estera nordamericana, come dimostra l'attività dello United States Special Operations Command, commando di operazioni speciali con base in Florida, che agisce in diverse parti del mondo.
Resta peculiare che un paese come gli Stati Uniti, che mantiene un campo di concentramento illegale come Guantànamo, che ha organizzato una rete militare clandestina per il sequestro di persone in varie parti del mondo, che ha promosso la creazione di carceri segrete in paesi come Polonia, Romania, Lettonia, Repubblica Ceca, Egitto, Algeria, Thailandia, Afganistan, Pakistan, Libia, Marocco, in connivenza con i governi di quei paesi; che ha consegnato prigionieri ad altri paesi perchè fossero interrogati e torturati; un paese che ha una kill list segreta, che firma il presidente Obama, per compiere esecuzioni di persone in qualsiasi luogo del pianeta senza alcun controllo giudiziario; un paese che ha organizzato una rete di spionaggio mondiale, rivelata da Snowden; che vulnera le leggi internazionali ed i diritti umani, e che ha violato la risoluzione dell'ONU sulla Libia per assassinare Gheddafi, come precedentemente aveva invaso l'Afganista e l'Iraq; che un paese così si attribuisca la funzione di severo giudice planetario sulla libertà e i comportamenti democratici è, quanto meno, sorprendente.
Nel complesso scenario internazionale, non si possono scartare accordi parziali, dovuti agli obiettivi di lungo periodo. Così Washington, senza rinunciare ad utilizzare tutte le sue risorse, continuerà il suo avvicinamento all'Iran, anche se questo danneggia le sue relazioni con Israele e con l'Arabia; vuole arrivare a patti per la Siria, senza cedere alla sua esigenza dell'uscita di scena di Bashar al-Assad e continuerà impassibile davanti alla sofferenza palestinese senza aumentare la sua pressione su Tel Aviv e senza fare una scommessa seria sulla creazione di due Stati alle frontiere della Palestina storica. Gli Stati Uniti sono disposti ad arrivare ad un accordo diplomatico in Ucraina accettando l'incorporazione della Crimea alla Russia ma senza rinunciare all'espansione della NATO, per conseguire a medio periodo l'avvicinamento di Kiev all'Unione Europea e la rottura definitiva dei suoi legami con Mosca, senza transigere con la federalizzazione del paese nè con il rispetto degli interessi russi. In Venezuela, al contrario, gli Stati Uniti continuano a spingere una politica aggressiva che ha un solo obiettivo: il rovesciamento del chavismo e la sconfitta della rivoluzione bolivariana, mentre osservano i movimenti di Raùl castro e le nuove opzioni aperte dal governo cubano, coscienti del fallimento della loro vecchia politica del blocco.
La crisi ucraina non è stata cominciata da Mosca. Ora il governo golpista ucraino, gli Stati Uniti e l'Unione Europea non vogliono nemmeno sentir parlare dela creazione di una commissione internazionale che investighi sugli assassinii per mano dei franchi tiratori di Kiev. Così se la marmaglia nazista può impunemente sfilare a Kiev e in altre città ucraine, non meraviglia nemmeno che veterani nazisti delle Waffen-SS sfilino a Riga, protetti dai ministri del governo lettone, come hanno fatto nel marzo 2014.
La responsabilità dell'Unione Europea e degli Stati Uniti nell'aver reso possibile l'arrivo di ministri apertamente fascisti al governo di un paese europeo è evidente, così come l'aver fornito copertura diplomatico e successivo appoggio ad un governo golpista, ma nè le denunce giornalistiche nè il ricorso alle istituzioni internazionali faranno sì che Washington rinunci all'utilizzo di compagnie di mercenari, gruppi terroristici e colpi di Stato patrocinati da "movimenti democratici".
La retorica nordamericana ed europea sulla libertà e la democrazia sono solo una trappola per incauti, per quanto queste idee siano anche una giusta e onorevole aspirazione per la maggioranza dell'umanità. La politica internazionale non si spiega con le teorie della cospirazione, ma con brutali interessi nazionali che, a volte, si difendono con mercenari e golpisti. Washington ha fra i suoi obiettivi l'ampliamento militare della NATO a Est, il controllo dei flussi di idrocarburi e la ricerca di mercati e opportunità di affari per le sue multinazionali, senza dimenticare che non ha rinunciato alla spartizione della stessa Russia.
Dall'Ucraina al Venezuela i mercenari preparano mezzi e arsenali, e il Dipartimento di Stato muove le pedine sulla scacchiera.
*) Docente di Storia Contemporanea dell'Università di Barcellona, saggista e scrittore.
Traduzione di Daniela Trollio Centro di Iniziativa Proletaria "G.Tagarelli" Via Magenta 88, Sesto S.Giovanni
De
Ucrania a Venezuela: mercenarios y golpistas
La
retórica norteamericana y europea sobre la libertad y la democracia
son apenas una trampa para incautos
Higinio
Polo
Uno
de los rasgos que aparece con frecuencia en distintos países es el
nacimiento de movimientos de protesta que, a diferencia de los
protagonizados históricamente por la izquierda, exigen ahora, junto
a confusas reclamaciones de libertad y de honradez en las
instituciones y en la vida pública, un
acercamiento a la Unión Europea o hacia “Occidente”, identificado de manera oscura con Estados Unidos. Esas peculiares rebeliones coexisten con otras que responden al tradicional patrón de los movimientos populares, aunque su carácter haya cambiado, así como muchos de sus protagonistas. Algunas, culminan en golpes de Estado y derrocamiento de gobiernos. El recurso a los golpes de Estado no es nuevo, pero sí la forma de cambiar gobiernos: sangrientos golpes de fuerza convencionales, protagonizados por los militares, como fueron los de Chile con Pinochet, y Argentina con Videla, y tantos otros semejantes, tan poco presentables y que desmentían con rotundidad el supuesto apoyo de Estados Unidos y sus socios a la libertad y la democracia, parecen dejar paso a provocaciones, a golpes de Estado disfrazados de revueltas populares: Ucrania es su modelo más exitoso hasta el momento.
Esas
provocaciones han sido organizadas en Serbia, Georgia, Moldavia,
Bielorrusia, Ucrania, Kirguizistán, Venezuela, así como en otros
países, y se han alentado movimientos de protesta en Rusia (que no
tienen nada que ver con las reclamaciones de la izquierda), en Cuba,
en Venezuela, en regiones chinas con movimientos nacionalistas, como
Xinjiang y Tíbet, siempre con diferente fortuna, recurriendo a la
financiación de fuerzas internas, a la intervención de organismos
occidentales y ONGs, casi siempre de la órbita norteamericana, y al
estímulo de movimientos de oposición por parte de los servicios
secretos y de la diplomacia. Que Washington intervenga en un
país concreto (y algunos de sus socios: Polonia, Francia, Arabia,
etc) no significa que no existan motivos de agitación y de
insatisfacción, a veces, incluso, justificados. Estados Unidos, y
algunos de sus aliados de la Unión Europea, no crean de la nada los
movimientos de protesta: actúan siempre sobre un fermento de
desconfianza, de hartazgo, pero desarrollan y financian esas
protestas como un factor más de su política exterior. Así, la
denominada “revolución Twitter” en Moldavia, en abril de 2009,
tuvo origen en las protestas por la victoria del Partido Comunista en
las elecciones, una victoria limpia pero que no fue aceptada por el
electorado derechista (que llegó a asaltar e incendiar el
Parlamento), frustrado por lo que consideraba el alejamiento de su
ansiada perspectiva de unión con Rumania y de ingreso en la Unión
Europea, reclamando la repetición de las elecciones. A su vez, en
Ucrania, el hartazgo popular por la corrupción del gobierno de
Yanukóvich era real (corrupción similar, por otra parte, a la que
se produjo con los gobiernos “naranja” de Yúshenko y Timoshenko,
ahora de nuevo en el poder), así como la participación en las
protestas de algunos sectores que no se identificaban con el
nacionalismo fascista de Svóboda o de Pravy Sektor, sino que
estarían más próximos a una vaga izquierda… aunque acabase
predominando la brutalidad nazi y fascista que ahora patrulla las
calles de Kiev.acercamiento a la Unión Europea o hacia “Occidente”, identificado de manera oscura con Estados Unidos. Esas peculiares rebeliones coexisten con otras que responden al tradicional patrón de los movimientos populares, aunque su carácter haya cambiado, así como muchos de sus protagonistas. Algunas, culminan en golpes de Estado y derrocamiento de gobiernos. El recurso a los golpes de Estado no es nuevo, pero sí la forma de cambiar gobiernos: sangrientos golpes de fuerza convencionales, protagonizados por los militares, como fueron los de Chile con Pinochet, y Argentina con Videla, y tantos otros semejantes, tan poco presentables y que desmentían con rotundidad el supuesto apoyo de Estados Unidos y sus socios a la libertad y la democracia, parecen dejar paso a provocaciones, a golpes de Estado disfrazados de revueltas populares: Ucrania es su modelo más exitoso hasta el momento.
El golpe de Estado en Ucrania, que los grandes medios de comunicación internacionales están convirtiendo en la “invasión de Crimea”, es la falla más preocupante de cuántas aparecen hoy en el escenario político internacional. La Unión Europea y Estados Unidos no sólo han apoyado un golpe de Estado, sino que han participado en su gestación. Los francotiradores que asesinaban a policías y manifestantes fueron contratados por la oposición, como sabemos ahora, después de haber causado una conmoción mundial achacando la responsabilidad al depuesto Yanukóvich. No es la primera provocación, ni será la última, en la periferia rusa. En enero de 1991, en Vilna, Lituania, todavía territorio soviético, una matanza de catorce personas ante la torre de la televisión conmovió al mundo, y toda la prensa internacional acusó al ejército soviético y al gobierno de Moscú. Hoy, sabemos también que fue una matanza provocada por los nacionalistas del Sajudis, por el propio gobierno lituano, para acusar a la Unión Soviética y, entre el dolor y la conmoción, precipitar la independencia. (Véase la entrevista con Audrius Butkevičius, responsable militar entonces del gobierno lituano, donde reconoce la autoría de la provocación, https://www.youtube.com/watch?v=1iIMRfYBNZw así como “Veinte años sin la URSS”, http://www.elviejotopo.com/web/revistas.php?numRevista=287 ).
Las evidencias sobre los sospechosos francotiradores han sido ignoradas, y ni la Unión Europea ni Estados Unidos (mucho menos, el gobierno golpista ucraniano de Yatseniuk) exigen la apertura de una investigación. La llegada de ministros de extrema derecha al gobierno ucraniano, y la persecución política de quienes son acusados de ser “partidarios de Rusia”, con asesinatos y quema de domicilios de opositores, debería alarmar a todo el continente, no en vano dirigentes fascistas como Andréi Parubíi controlan el ejército, la policía y los servicios secretos.
Alexánder Yakimenko, que fue responsable de los servicios de seguridad ucranianos con el presidente derrocado, Yanukóvich, reveló que la acción de los francotiradores que protagonizaron una matanza entre manifestantes y policías el 20 de febrero, fue una provocación organizada por el “comandante” del Maidán, Andréi Parubíi, en coordinación con la embajada norteamericana. Parubíi es un veterano organizador de milicias fascistas y de grupos neonazis. Los disparos fueron realizados desde el edificio de la Filarmónica de Kiev que estaba controlado por hombres armados que dependían de Parubíi. Otros francotiradores a sus órdenes estaban apostados en el Hotel Kiev. El edificio del hotel domina toda la plaza del Maidán, y el edificio de la Filarmónica se encuentra a su derecha, en la cercana plaza Yevropeis'ka. De hecho, las palabras de Yakimenko confirman la conversación filtrada entre el ministro de Exteriores estonio, Urmas Paet, y Catherine Asthon, donde hacían responsable a la oposición de haber contratado a los mercenarios francotiradores que causaron la masacre. El nuevo gobierno golpista ucraniano nombró a Parubíi secretario de Seguridad Nacional, desde donde controla el Ministerio de Defensa y las fuerzas armadas.
Los servicios secretos norteamericanos, de acuerdo con Polonia, y en campos de entrenamientos polacos, letones y lituanos, organizaron la logística para impulsar el golpe de Estado en Ucrania. La generosa financiación de la revuelta llegó desde países europeos, de Estados Unidos y de oligarcas ucranianos. Una larga intromisión en los asuntos internos ucranianos, a través de ONGs, de agencias norteamericanas, y de financiación de grupos violentos, muchos abiertamente fascistas y nazis, confluyeron en el Maidán. La provocación y la crisis forzó a los acuerdos entre Yanukóvich y la oposición, sugeridos por los ministros de Exteriores de Alemania, Polonia y Francia… que fueron ignorados de inmediato por los matones del Maidán, dirigidos desde la embajada norteamericana. La pasividad del ejército, y la retirada de la policía, en aplicación de los acuerdos, dejó sin defensa al gobierno de Yanukóvich que asistió impotente a la ocupación del Parlamento y de los edificios del gobierno por parte de los grupos armados fascistas. Así triunfó el golpe de Estado.
De la calaña de los nuevos dirigentes de Kiev habla con elocuencia la conversación filtrada de Timoshenko, donde afirmó: “Hay que tomar las armas y matar a los malditos rusos”. El desembarco del FMI ya empieza a notarse: 25.000 funcionarios serán despedidos, los impuestos aumentarán, así como las medidas de austeridad y los recortes sociales, que serán aprobados de inmediato, y los soldados norteamericanos y de la OTAN podrán entrar en Ucrania.
* * *
Ucrania es una pieza importante del tablero internacional, pero hay otras relevantes, en la compleja disputa por ámbitos de influencia. Estados Unidos, con la oportunista política exterior que está desarrollando, siempre ventajista, ha conseguido convertir, para el gran público, el golpe de Estado ucraniano en la “crisis de Crimea”, donde ha visto con impotencia el fracaso de su ambicioso propósito (no por oculto, menos evidente) de desalojar a la Armada rusa de Sebastopol, privándola así de buena parte de su capacidad de maniobra y dificultando su salida al mar Mediterráneo.
Las tensas relaciones de Washington con Moscú no excluyen la negociación, y la posibilidad de acuerdos en otros escenarios. Así, en Afganistán, la retirada de las fuerzas norteamericanas, tras más de una década de ocupación, donde deja un país destruido, que puede derivar en una situación fuera de control, en el aumento de la inestabilidad en el país y en buena parte de Asia central. Las elecciones presidenciales del 5 de abril de 2014 no cambiarán en esencia los riesgos que enfrenta el país: la retirada norteamericana, tras el acuerdo sobre seguridad alcanzado por Karzai y Estados Unidos, no garantiza el inicio de una posguerra pacífica: ni todos los talibán están de acuerdo en negociar con Karzai, ni las fuerzas entrenadas por Washington, que se harán cargo de la seguridad en el país, pueden asegurar el control sobre todo el territorio. Karzai busca garantías norteamericanas para evitar el vértigo del inicio de nuevos enfrentamientos abiertos con los islamistas; a su vez, Washington pretende mantener un gobierno cliente (aunque Karzai persigue sus propios fines, y está presionado por la situación interna) que salvaguarde sus intereses, y los talibán no renuncian a recobrar el poder. La hipótesis de negociaciones de paz entre el gobierno de Karzai y los talibán para un reparto del gobierno y del territorio no puede descartarse. Rusia y China temen una mayor desestabilización del territorio y la expansión del islamismo radical. Estados Unidos que desempeñó el papel de aprendiz de brujo impulsando el fanatismo islamista, se niega a asumir responsabilidades.
En Siria, donde la guerra civil ha destruido buena parte del país, Washington busca el derrocamiento de Bachar el-Asad, la ruptura de la alianza sirio-iraní, que influye en Iraq, Líbano y en minorías de Oriente Medio, y la rendición del último aliado de Moscú en la zona. También aquí Estados Unidos utilizó el recurso a la financiación de grupos terroristas, que se añadieron a las iniciales protestas pacíficas, que eran en esencia una mezcla de demandas cívicas y económicas y de grupos dirigidos y financiados por los servicios secretos occidentales. La transformación de limitadas protestas pacíficas en grupos armados e insurgentes financiados desde el exterior (Arabia, Qatar, Estados Unidos), y entrenados en Turquía, Arabia y Jordania, culminó en la sangrienta guerra civil de la que tampoco Washington se hace responsable.
La posibilidad de una intervención directa norteamericana todavía no puede descartarse. De hecho, Estados Unidos (conjuntamente con Francia) estuvo a punto de atacar a Siria en el verano de 2013, ataque que se detuvo gracias a la habilidad diplomática rusa y a la apertura de un escenario de negociaciones en Ginebra que, pese a su incierto futuro, Washington no podía ignorar. La destrucción del arsenal químico sirio, aceptada por Damasco, y la ronda de conversaciones en Ginebra, ha ido acompañada por el retroceso de las fuerzas islamistas y del conglomerado apoyado por Occidente y por algunos países árabes. El ejército sirio está empezando a controlar la situación, aunque nada es irreversible: Bachar el-Asad se enfrenta a grupos fanatizados de islamistas, y Estados Unidos no renuncia a su derrocamiento o, al menos, a su retirada pactada.
Irán concentra buena parte de las preocupaciones de Washington. Las negociaciones abiertas con Teherán, que han hecho aflorar diferencias entre Estados Unidos, por una parte, e Israel y Arabia, por otra, dependen de la evolución de la guerra civil en Siria, de la definición de objetivos por parte de Washington (con criterios divergentes entre el Pentágono y el Departamento de Estado), de los equilibrios internos entre Alí Jamenei y Hasán Rouhaní, y de la actitud de Rusia y China. Sin duda, Moscú, que mantiene buenas relaciones con Teherán, va a tener en cuenta la oportunista política norteamericana, que, en Ucrania, ha prescindido por completo de los intereses rusos. Al mismo tiempo, Arabia, discreto y poderoso actor regional, sigue dolida por el abandono de Estados Unidos a Mubarak: la revuelta egipcia cogió por sorpresa a Washington, que no dudó en distanciarse del dictador a quién había apoyado durante años… para tomar posiciones en el nuevo escenario: lo ha conseguido, y la previsible llegada al poder del general Abdul Fatah al-Sisi recompone su influencia en Egipto. Arabia desconfía de los resultados de unas negociaciones inciertas con Irán, y mantiene su rechazo a la emergencia iraní en la zona, rasgo que le acerca a Israel, cuya atención sigue centrada en la opresión del pueblo palestino y en la contención de Teherán.
En Iraq, la ocupación militar norteamericana y la guerra y destrucción del país han causado más de un millón y medio de muertos, y millones de refugiados. Los Estados Unidos utilizaron armamento prohibido: desde el agente naranja hasta el uranio empobrecido, violando las convenciones internacionales. El gobierno impuesto de al-Maliki continúa las prácticas norteamericanas de bombardeos sobre la población civil, pero la situación, con constantes protestas populares, es volátil, y una de las paradojas de una década de ocupación militar norteamericana es el reforzamiento de la influencia iraní en el país. En todo ese gran arco que va desde Afganistán hasta Siria, pasando por Irán e Iraq, Estados Unidos necesita de la buena voluntad de Moscú, y de su colaboración en el tránsito de tropas y de material de guerra, como ilustra las facilidades dadas por el gobierno ruso a la OTAN en Uliánovsk, cercana al Kazajastán.
China, otro de los protagonistas relevantes, ha mantenido una discreta posición ante la crisis ucraniana, preocupada por la intromisión norteamericana en los asuntos internos de otros países, pero también por la aparición de nuevas fronteras, con las secuelas de enfrentamientos e inestabilidad internacional, que quiere evitar a toda costa, aunque ello no impida que dibuje sus propias líneas rojas. Washington intenta detener el fortalecimiento chino, y diseña un nuevo equilibrio en la gran región de Asia-Pacífico que, a la fuerza ahorcan, no puede ignorar a China. La política de Washington pasa por fortalecer su alianza con Japón, Corea del Sur y Filipinas, mientras prosigue su estrategia, no por cautelosa menos decidida, de aproximación a la India, Birmania y Vietnam, con el objetivo de atraerlos a un frente antichino, y mientras presiona en la península coreana con sucesivas pruebas militares conjuntas con Seúl que no contribuyen a la estabilidad y aumentan la incertidumbre. Sin embargo, sus aliados tienen su propia agenda e intereses: incluso el dócil Japón afila su nacionalismo, provoca a China en Yasukuni, y apuesta por el reforzamiento de su ejército y por una reforma constitucional que cerraría el período abierto con el final de la Segunda Guerra Mundial. Washington sostiene a Japón, pero controla sus movimientos porque le preocupa la posibilidad de que una poco calculada apuesta japonesa dañe su planificación estratégica y sus intereses en Asia, mientras refuerza su dispositivo militar en la zona, y maniobra para que el dólar continúe manteniendo su función de moneda de reserva y de intercambio internacional ante el fortalecimiento económico del Asia oriental y de la moneda china.
América Latina sigue siendo un escenario secundario para las grandes potencias, aunque del éxito definitivo de la revolución bolivariana en Venezuela se desprenderían muchas consecuencias para el resto del continente y para el mundo. En Venezuela, de manera semejante a como ha hecho en Ucrania, Estados Unidos impulsa una política de acoso contra el gobierno de Maduro, y tiene diversas agencias colaborando con la oposición venezolana: la USAID, la CIA, la NSA, o la NED, National Endowment for Democracy. Washington ya colaboró en el golpe de Estado de 2002, cuando, tras la detención de Chávez, pretendieron imponer al efímero Carmona. Ahora, no sólo lo hace financiando campañas, sino asesorando a la oposición, impulsando una controlada estrategia de tensión en las calles y de estímulo de rebelión entre los militares, donde Maduro no tiene la misma influencia que tuvo Chávez. Una vertiente de la estrategia de acoso es la desinformación, ofreciendo a través de su potente prensa y del dominio de la agenda política internacional una visión distorsionada del país, que presenta como una dictadura pese a que el chavismo ha ganado de manera limpia todas las elecciones convocadas en la última década.
La política norteamericana opera sobre una parte de la población que rechaza la revolución bolivariana, al tiempo que la escalada de violencia en el país favorece la presentación internacional de un cuadro de crisis aguda y estimula a los sectores que, frente a las victorias electorales chavistas, especulan con un golpe de Estado capaz de desalojar a Maduro del gobierno. Estados Unidos persigue la desarticulación del eje latinoamericano trenzado alrededor de Cuba y Venezuela, apuesta por estimular las protestas civiles en esos países, profundizar el desabastecimiento de productos alimenticios y de primera necesidad gracias a su colaboración con sectores empresariales ligados a la oposición derechista venezolana, con la intención de agudizar la crisis, en un escenario donde ni siquiera se descarta la hipótesis de un golpe de fuerza. Los objetivos son tres: la destrucción de la revolución bolivariana, una nueva derrota de la izquierda latinoamericana articulada en torno al eje Caracas-La Habana, y el control del petróleo venezolano. Bolivia tiene una importancia marginal en el escenario estratégico americano, aunque, junto a Ecuador y Nicaragua, aliados de Cuba y Venezuela, también entran en la planificación desestabilizadora de Washington.
* * *
Tras el fracaso de las aventuras militares en Afganistán e Iraq, que no han resuelto ninguno de los problemas de la zona (ni el terrorismo, ni el narcotráfico, ni la inestabilidad política y militar, ni han hecho avanzar la libertad, los derechos de la mujer o las instituciones democráticas, como tantas veces proclamaron los publicistas norteamericanos), el gobierno estadounidense ha decidido utilizar con mayor mesura sus fuerzas militares, aunque sin renunciar a ello, e impulsar sus objetivos políticos con otros medios: presiones diplomáticas, chantajes de Estado, acción de mercenarios, provocaciones, golpes de Estado. Para conseguir sus fines, el gobierno norteamericano no tiene el menor inconveniente en mentir. Incluso el propio Obama mintió cuando, durante su visita a Bruselas a finales de marzo de 2014, afirmó que Kosovo había adquirido la independencia a través de un referéndum supuestamente acordado entre los países interesados y la ONU; referéndum que nunca tuvo lugar, puesto que la secesión de la provincia serbia fue debida a una proclamación unilateral del gobierno y del parlamento kosovar, precedida por los bombardeos de la OTAN sobre los restos de Yugoslavia, sin autorización de la ONU.
La retórica libertaria de Washington esconde una acción que no por conocida es menos peligrosa para la paz y la estabilidad internacional. La utilización de drones para realizar asesinatos selectivos y bombardeos sobre la población civil, el recurso al espionaje, las escuchas ilegales, la financiación de grupos armados que puedan favorecer sus intereses, dentro de una concepción de “guerra no convencional”, preside muchos de los planteamientos del Pentágono y de la Casa Blanca. Sus fuerzas de operaciones especiales, y sus grupos de comandos, van a continuar siendo instrumento de la política exterior norteamericana, como muestra la actividad del United States Special Operations Command, comando de operaciones especiales, con base en Florida, que actúa en diferentes partes del mundo. No deja de ser peculiar que un país, como Estados Unidos, que mantiene un campo de concentración ilegal como Guantánamo, que organizó una red militar clandestina para el secuestro de personas en distintos países del mundo, que impulsó la creación de cárceles secretas en países como Polonia, Rumania, Letonia, República Checa, Egipto, Argelia, Thailandia, Afganistán, Pakistán, Libia, Marruecos, en connivencia con los gobiernos de esos países; que entregó a prisioneros a otros países para que fueran interrogados y torturados; un país que cuenta con una kill list secreta, que firma el presidente Obama, para ejecutar a personas en cualquier lugar del planeta sin ningún control judicial; un país que ha organizado una red de espionaje mundial, revelada por Snowden, que lesiona las leyes internacionales y los derechos humanos, y que violó la resolución de la ONU sobre Libia para asesinar a Gadafi, como antes invadió Afganistán e Iraq; que un país así se adjudique la condición de severo juez planetario sobre la libertad y los comportamientos democráticos, es, cuando menos, sorprendente.
En el complejo escenario internacional, no pueden descartarse acuerdos parciales, presididos por los objetivos a largo plazo. Así, Washington, sin renunciar a utilizar todos sus recursos, va a continuar con su acercamiento a Irán, aunque eso dañe sus relaciones con Israel y Arabia; quiere llegar a compromisos en Siria, sin ceder en su exigencia de la salida de Bachar al-Asad, y va a continuar impasible ante el sufrimiento palestino, sin aumentar su presión sobre Tel-Aviv y sin lanzar una seria apuesta por la creación de dos Estados en las fronteras de la Palestina histórica. Estados Unidos está dispuesto a llegar a un acuerdo diplomático en Ucrania, aceptando la incorporación de Crimea a Rusia, pero sin renunciar a la expansión de la OTAN, para conseguir a medio plazo el acercamiento de Kiev a la Unión Europea y la ruptura definitiva de sus lazos con Moscú, sin transigir con la federalización del país ni con el respeto de los intereses rusos. En Venezuela, por el contrario, Estados Unidos va a continuar impulsando una agresiva política que sólo tiene un objetivo: el derrocamiento del chavismo y la derrota de la revolución bolivariana, mientras observa los movimientos de Raúl Castro y las nuevas opciones abiertas por el gobierno cubano, consciente del fracaso de su vieja política de bloqueo.
La crisis ucraniana no fue iniciada por Moscú. Ahora, el gobierno golpista ucraniano, Estados Unidos y la Unión Europea no quieren ni oír hablar de la creación de una comisión internacional que investigue los asesinatos a manos de los francotiradores de Kiev. Así, si los matones nazis pueden desfilar impunemente por Kiev y otras ciudades ucranianas, no extraña tampoco que veteranos nazis de las Waffen-SS desfilen en Riga, amparados por ministros del gobierno letón, como hicieron a mediados de marzo de 2014. La responsabilidad de la Unión Europea y de Estados Unidos en haber hecho posible la llegada de ministros abiertamente fascistas al gobierno de un país europeo es evidente, como en haber facilitado cobertura diplomática y apoyo posterior a un gobierno golpista, pero ni las denuncias periodísticas ni el recurso a las instancias internacionales va a hacer que Washington renuncie a la utilización de compañías de mercenarios, grupos terroristas y golpes de Estado patrocinados por “movimientos democráticos”.
La retórica norteamericana y europea sobre la libertad y la democracia son apenas una trampa para incautos, por mucho que sea, también, una digna y justa aspiración para la mayoría de la humanidad. La política internacional no se explica con teorías de la conspiración, sino con brutales intereses nacionales, que, a veces, se defienden con mercenarios y golpistas. Washington tiene entre sus objetivos la ampliación militar de la OTAN hacia el Este, el control de los flujos de hidrocarburos y la búsqueda de mercados y oportunidades de negocio para sus multinacionales, sin olvidar que no ha renunciado a la partición de la propia Rusia. De Ucrania a Venezuela, los mercenarios preparan recursos y arsenales, y el Departamento de Estado mueve piezas sobre el tablero.
El Viejo Topo
Immagini
da Internet inserite da amministrazione blog
Nessun commento:
Posta un commento