Sabra
e Shatila 30 anni dopo. Una strage rimasta impunita. Vi proponiamo
l'articolo che scrisse Robert Fisk uno dei primi giornalisti ad
entrare nei campi palestinesi dopo il massacro
Sabra
e Shatila: "Ce lo dissero le mosche..."
di
Robert Fisk - settembre 1982
"Furono
le mosche a farcelo capire. Erano milioni e il loro ronzio era
eloquente quasi quanto l'odore. Grosse come mosconi, all'inizio ci
coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti. Se
stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito - a legioni
- sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le
braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla
bocca, spostandosi da un corpo all'altro, dai molti morti ai pochi
vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di
eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a
banchettare.
Se
non ci muovevamo abbastanza velocemente, ci pungevano. Perlopiù
giravano intorno alle nostre teste in una nuvola grigia, in attesa
che assumessimo la generosa immobilità dei morti. Erano servizievoli
quelle mosche, costituivano il nostro unico legame fisico con le
vittime che ci erano intorno, ricordandoci che c'è vita anche nella
morte. Qualcuno ne trae profitto. Le mosche sono imparziali. Per loro
non aveva nessuna importanza che quei corpi fossero stati vittime di
uno sterminio di massa. Le mosche si sarebbero comportate nello
stesso modo con un qualsiasi cadavere non sepolto. Senza dubbio,
doveva essere stato così anche nei caldi pomeriggi durante la Peste
nera.
All'inizio
non usammo la parola massacro. Parlammo molto poco perché le mosche
si avventavano infallibilmente sulle nostrae bocche. Per questo
motivo ci tenevamo sopra un fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso
perché le mosche si spostavano su tutta la faccia. Se a Sidone
l'odore dei cadaveri era stato nauseante, il fetore di Shatila ci
faceva vomitare. Lo sentivamo anche attraverso i fazzoletti più
spessi. Dopo qualche minuto, anche noi cominciammo a puzzare di
morto.
Erano
dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze
distrutte, sotto i mattoni crollati e sui cumuli di spazzatura. Gli
assassini - i miliziani cristiani che Israele aveva lasciato entrare
nei campi per «spazzare via i terroristi» - se n'erano appena
andati. In alcuni casi il sangue a terra era ancora fresco. Dopo aver
visto un centinaio di morti, smettemmo di contarli. In ogni vicolo
c'erano cadaveri - donne, giovani, nonni e neonati - stesi uno
accanto all'altro, in quantità assurda e terribile, dove erano stati
accoltellati o uccisi con i mitra. In ogni corridoio tra le macerie
trovavamo nuovi cadaveri. I pazienti di un ospedale palestinese erano
scomparsi dopo che i miliziani avevano ordinato ai medici di
andarsene. Dappertutto, trovavamo i segni di fosse comuni scavate in
fretta. Probabilmente erano state massacrate mille persone; e poi
forse altre cinquecento.
Mentre
eravamo lì, davanti alle prove di quella barbarie, vedevamo gli
israeliani che ci osservavano. Dalla cima di un grattacielo a ovest -
il secondo palazzo del viale Camille Chamoun - li vedevamo che ci
scrutavano con i loro binocoli da campo, spostandoli a destra e a
sinistra sulle strade coperte di cadaveri, con le lenti che a volte
brillavano al sole, mentre il loro sguardo si muoveva attraverso il
campo. Loren Jenkins continuava a imprecare. Pensai che fosse il suo
modo di controllare la nausea provocata da quel terribile fetore.
Avevamo tutti voglia di vomitare. Stavamo respirando morte, inalando
la putredine dei cadaveri ormai gonfi che ci circondavano. Jenkins
capì subito che il ministro della Difesa israeliano avrebbe dovuto
assumersi una parte della responsabilità di quell'orrore. «Sharon!»
gridò. «Quello stronzo di Sharon! Questa è un'altra Deir Yassin.»
Quello
che trovammo nel campo palestinese di Shatila alle dieci di mattina
del 18 settembre 1982 non era indescrivibile, ma sarebbe stato più
facile da raccontare nella fredda prosa scientifica di un esame
medico. C'erano già stati massacri in Libano, ma raramente di quelle
proporzioni e mai sotto gli occhi di un esercito regolare e
presumibilmente disciplinato. Nell'odio e nel panico della battaglia,
in quel paese erano state uccise decine di migliaia di persone. Ma
quei civili, a centinaia, erano tutti disarmati. Era stato uno
sterminio di massa, un'atrocità, un episodio - con quanta facilità
usavamo la parola «episodio» in Libano - che andava ben oltre
quella che in altre circostanze gli israeliani avrebbero definito una
strage terroristica. Era stato un crimine di guerra.
Jenkins,
Tveit e io eravamo talmente sopraffatti da ciò che avevamo trovato a
Shatila che all'inizio non riuscivamo neanche a renderci conto di
quanto fossimo sconvolti. Bill Foley dell'Ap era venuto con noi.
Mentre giravamo per le strade, l'unica cosa che riusciva a dire era
«Cristo santo!». Avremmo potuto accettare di trovare le tracce di
qualche omicidio, una dozzina di persone uccise nel fervore della
battaglia; ma nelle case c'erano donne stese con le gonne sollevate
fino alla vita e le gambe aperte, bambini con la gola squarciata,
file di ragazzi ai quali avevano sparato alle spalle dopo averli
allineati lungo un muro. C'erano neonati - tutti anneriti perché
erano stati uccisi più di ventiquattro ore prima e i loro corpicini
erano già in stato di decomposizione - gettati sui cumuli di rifiuti
accanto alle scatolette delle razioni dell'esercito americano, alle
attrezzature mediche israeliane e alle bottiglie di whisky vuote.
Dov'erano
gli assassini? O per usare il linguaggio degli israeliani, dov'erano
i «terroristi»? Mentre andavamo a Shatila avevamo visto gli
israeliani in cima ai palazzi del viale Camille Chamoun, ma non
avevano cercato di fermarci. In effetti, eravamo andati prima al
campo di Burj al-Barajne perché qualcuno ci aveva detto che c'era
stato un massacro. Tutto quello che avevamo visto era un soldato
libanese che inseguiva un ladro d'auto in una strada. Fu solo mentre
stavamo tornando indietro e passavamo davanti all'entrata di Shatila
che Jenkins decise di fermare la macchina. «Non mi piace questa
storia» disse. «Dove sono finiti tutti? Che cavolo è quest'odore?»
Appena
superato l'ingresso sud del campo, c'erano alcune case a un piano
circondate da muri di cemento. Avevo fatto tante interviste in quelle
casupole alla fine degli anni settanta. Quando varcammo la fangosa
entrata di Shatila vedemmo che tutte quelle costruzioni erano state
fatte saltare in aria con la dinamite. C'erano bossoli sparsi a terra
sulla strada principale. Vidi diversi candelotti di traccianti
israeliani, ancora attaccati ai loro minuscoli paracadute. Nugoli di
mosche aleggiavano tra le macerie, branchi di predoni che avevano
annusato la vittoria.
In
fondo a un vicolo sulla nostra destra, a non più di cinquanta metri
dall'entrata, trovammo un cumulo di cadaveri. Erano più di una
dozzina, giovani con le braccia e le gambe aggrovigliate nell'agonia
della morte. A tutti avevano sparato a bruciapelo, alla guancia: la
pallottola aveva portato via una striscia di carne fino all'orecchio
ed era poi entrata nel cervello. Alcuni avevano cicatrici nere o
rosso vivo sul lato sinistro del collo. Uno era stato castrato, i
pantaloni erano strappati sul davanti e un esercito di mosche
banchettava sul suo intestino dilaniato.
Avevano
tutti gli occhi aperti. Il più giovane avrà avuto dodici o tredici
anni. Portavano jeans e camicie colorate, assurdamente aderenti ai
corpi che avevano cominciato a gonfiarsi per il caldo. Non erano
stati derubati. Su un polso annerito, un orologio svizzero segnava
l'ora esatta e la lancetta dei minuti girava ancora, consumando
inutilmente le ultime energie rimaste sul corpo defunto.
Dall'altro
lato della strada principale, risalendo un sentiero coperto di
macerie, trovammo i corpi di cinque donne e parecchi bambini. Le
donne erano tutte di mezza età ed erano state gettate su un cumulo
di rifiuti. Una era distesa sulla schiena, con il vestito strappato e
la testa di una bambina che spuntava sotto il suo corpo. La bambina
aveva i capelli corti, neri e ricci, dal viso corrucciato i suoi
occhi ci fissavano. Era morta.
Un'altra
bambina era stesa sulla strada come una bambola gettata via, con il
vestitino bianco macchiato di fango e polvere. Non avrà avuto più
di tre anni. La parte posteriore della testa era stata portata via
dalla pallottola che le avevano sparato al cervello. Una delle donne
stringeva a sé un minuscolo neonato. La pallottola attraversandone
il petto aveva ucciso anche il bambino. Qualcuno le aveva squarciato
la pancia in lungo e in largo, forse per uccidere un altro bambino
non ancora nato. Aveva gli occhi spalancati, il volto scuro
pietrificato dall'orrore.
Tveit
cercò di registrare tutto su una cassetta, parlando lentamente in
norvegese e in tono impassibile. «Ho trovato altri corpi, quelli di
una donna con il suo bambino. Sono morti. Ci sono altre tre donne.
Sono morte.»
Di
tanto in tanto, premeva il bottone della pausa e si piegava per
vomitare nel fango della strada. Mentre esploravamo un vicolo, Foley,
Jenkins e io sentimmo il rumore di un cingolato. «Sono ancora qui»
disse Jenkins e mi fissò. Erano ancora lì. Gli assassini erano
ancora nel campo. La prima preoccupazione di Foley fu che i miliziani
cristiani potessero portargli via il rullino, l'unica prova - per
quanto ne sapesse - di quello che era successo. Cominciò a correre
lungo il vicolo.
Io
e Jenkins avevamo paure più sinistre. Se gli assassini erano ancora
nel campo, avrebbero voluto eliminare i testimoni piuttosto che le
prove fotografiche. Vedemmo una porta di metallo marrone socchiusa;
l'aprimmo e ci precipitammo nel cortile, chiudendola subito dietro di
noi. Sentimmo il veicolo che si addentrava nella strada accanto, con
i cingoli che sferragliavano sul cemento. Jenkins e io ci guardammo
spaventati e poi capimmo che non eravamo soli. Sentimmo la presenza
di un altro essere umano. Era lì vicino a noi, una bella ragazza
distesa sulla schiena.
Era
sdraiata lì come se stesse prendendo il sole, il sangue ancora umido
le scendeva lungo la schiena. Gli assassini se n'erano appena andati.
E lei era lì, con i piedi uniti, le braccia spalancate, come se
avesse visto il suo salvatore. Il viso era sereno, gli occhi chiusi,
era una bella donna, e intorno alla sua testa c'era una strana
aureola: sopra di lei passava un filo per stendere la biancheria e
pantaloni da bambino e calzini erano appesi. Altri indumenti
giacevano sparsi a terra. Quando gli assassini avevano fatto
irruzione, probabilmente stava ancora stendendo il bucato della sua
famiglia. E quando era caduta, le mollette che teneva in mano erano
finite a terra formando un piccolo cerchio di legno attorno al suo
capo.
Solo
il minuscolo foro che aveva sul seno e la macchia che si stava man
mano allargando indicavano che fosse morta. Perfino le mosche non
l'avevano ancora trovata. Pensai che Jenkins stesse pregando, ma
imprecava di nuovo e borbottava «Dio santo», tra una bestemmia e
l'altra. Provai tanta pena per quella donna. Forse era più facile
provare pietà per una persona giovane, così innocente, una persona
il cui corpo non aveva ancora cominciato a marcire. Continuavo a
guardare il suo volto, il modo ordinato in cui giaceva sotto il filo
da bucato, quasi aspettandomi che aprisse gli occhi da un momento
all'altro.
Probabilmente
quando aveva sentito sparare nel campo era andata a nascondersi in
casa. Doveva essere sfuggita all'attenzione dei miliziani fino a
quella mattina. Poi era uscita in giardino, non aveva sentito nessuno
sparo, aveva pensato che fosse tutto finito e aveva ripreso le sue
attività quotidiane. Non poteva sapere quello che era successo. A un
tratto qualcuno aveva aperto la porta, improvvisamente come avevamo
fatto noi, e gli assassini erano entrati e l'avevano uccisa. Senza
pensarci due volte. Poi se n'erano andati ed eravamo arrivati noi,
forse soltanto un minuto o due dopo.
Rimanemmo
in quel giardino ancora per un po'. Io e Jenkins eravamo spaventati.
Come Tveit, che era momentaneamente scomparso, Jenkins era un
sopravvissuto. Mi sentivo al sicuro con lui. I miliziani - gli
assassini della ragazza - avevano violentato e accoltellato le donne
di Shatila e sparato agli uomini, ma sospettavo che avrebbero esitato
a uccidere Jenkins e l'americano avrebbe cercato di dissuaderli.
«Andiamocene via di qui» disse, e ce ne andammo. Fece capolino in
strada per primo, io lo seguii, chiudendo la porta molto piano perché
non volevo disturbare la donna morta, addormentata, con la sua
aureola di mollette da bucato.
Foley
era tornato sulla strada vicino all'entrata del campo. Il cingolato
era scomparso, anche se sentivo che si spostava sulla strada
principale esterna, in direzione degli israeliani che ci stavano
ancora osservando. Jenkins sentì Tveit urlare da dietro una catasta
di cadaveri e lo persi di vista. Continuavamo a perderci di vista
dietro i cumuli di cadaveri. Un attimo prima stavo parlando con
Jenkins, un attimo dopo mi giravo e scoprivo che mi stavo rivolgendo
a un ragazzo, riverso sul pilastro di una casa con le braccia
penzoloni dietro la testa.
Sentivo
le voci di Jenkins e Tveit a un centinaio di metri di distanza,
dall'altra parte di una barricata coperta di terra e sabbia che era
stata appena eretta da un bulldozer. Sarà stata alta più di tre
metri e mi arrampicai con difficoltà su uno dei lati, con i piedi
che scivolavano nel fango. Quando ormai ero arrivato quasi in cima
persi l'equilibrio e per non cadere mi aggrappai a una pietra rosso
scuro che sbucava dal terreno. Ma non era una pietra. Era viscida e
calda e mi rimase appiccicata alla mano. Quando abbassai gli occhi
vidi che mi ero attaccato a un gomito che sporgeva dalla terra, un
triangolo di carne e ossa.
Lo
lasciai subito andare, inorridito, pulendomi i resti di carne morta
sui pantaloni, e finii di salire in cima alla barricata barcollando.
Ma l'odore era terrificante e ai miei piedi c'era un volto al quale
mancava metà bocca, che mi fissava. Una pallottola o un coltello
gliel'avevano portata via, quello che restava era un nido di mosche.
Cercai di non guardarlo. In lontananza, vedevo Jenkins e Tveit in
piedi accanto ad altri cadaveri davanti a un muro, ma non potevo
chiedere aiuto perché sapevo che se avessi aperto la bocca per
gridare avrei vomitato.
Salii
in cima alla barricata cercando disperatamente un punto che mi
consentisse di saltare dall'altra parte. Ma non appena facevo un
passo, la terra mi franava sotto i piedi. L'intero cumulo di fango si
muoveva e tremava sotto il mio peso come se fosse elastico e, quando
guardai giù di nuovo, vidi che solo uno strato sottile di sabbia
copriva altre membra e altri volti. Mi accorsi che una grossa pietra
era in realtà uno stomaco. Vidi la testa di un uomo, il seno nudo di
una donna, il piede di un bambino. Stavo camminando su decine di
cadaveri che si muovevano sotto i miei piedi.
I
corpi erano stati sepolti da qualcuno in preda al panico. Erano stati
spostati con un bulldozer al lato della strada. Anzi, quando sollevai
lo sguardo vidi il bulldozer - con il posto di guida vuoto -
parcheggiato con aria colpevole in fondo alla strada.
Mi
sforzavo invano di non camminare sulle facce che erano sotto di me.
Provavamo tutti un profondo rispetto per i morti, perfino lì e in
quel momento. Continuavo a dirmi che quei cadaveri mostruosi non
erano miei nemici, quei morti avrebbero approvato il fatto che fossi
lì, avrebbero voluto che io, Jenkins e Tveit vedessimo tutto questo,
e quindi non dovevo avere paura di loro. Ma non avevo mai visto tanti
cadaveri in tutta la mia vita.
Saltai
giù e corsi verso Jenkins e Tveit. Suppongo che stessi piagnucolando
come uno scemo perché Jenkins si girò. Sorpreso. Ma appena aprii la
bocca per parlare, entrarono le mosche. Le sputai fuori. Tveit
vomitava. Stava guardando quelli che sembravano sacchi davanti a un
basso muro di pietra. Erano tutti allineati, giovani uomini e
ragazzi, stesi a faccia in giù. Gli avevano sparato alla schiena
mentre erano appoggiati al muro e giacevano lì dov'erano caduti, una
scena patetica e terribile.
Quel
muro e il mucchio di cadaveri mi ricordavano qualcosa che avevo già
visto. Solo più tardi mi sarei reso conto di quanto assomigliassero
alle vecchie fotografie scattate nell'Europa occupata durante la
Seconda guerra mondiale. Ci sarà stata una ventina di corpi. Alcuni
nascosti da altri. Quando mi inchinai per guardarli più da vicino
notai la stessa cicatrice scura sul lato sinistro del collo. Gli
assassini dovevano aver marchiato i prigionieri da giustiziare in
quel modo. Un taglio sulla gola con il coltello significava che
l'uomo era un terrorista da giustiziare immediatamente. Mentre
eravamo lì sentimmo un uomo gridare in arabo dall'altra parte delle
macerie: «Stanno tornando». Così corremmo spaventati verso la
strada. A ripensarci, probabilmente era la rabbia che ci impediva di
andarcene, perché ci fermammo all'ingresso del campo per guardare in
faccia alcuni responsabili di quello che era successo. Dovevano
essere arrivati lì con il permesso degli israeliani. Dovevano essere
stati armati da loro. Chiaramente quel lavoro era stato controllato -
osservato attentamente - dagli israeliani, dagli stessi soldati che
guardavano noi con i binocoli da campo.
Sentimmo
un altro mezzo corazzato sferragliare dietro un muro a ovest - forse
erano falangisti, forse israeliani - ma non apparve nessuno. Così
proseguimmo. Era sempre la stessa scena. Nelle casupole di Shatila,
quando i miliziani erano entrati dalla porta, le famiglie si erano
rifugiate nelle camere da letto ed erano ancora tutti lì, accasciati
sui materassi, spinti sotto le sedie, scaraventati sulle pentole.
Molte donne erano state violentate, i loro vestiti giacevano sul
pavimento, i corpi nudi gettati su quelli dei loro mariti o fratelli,
adesso tutti neri di morte.
C'era
un altro vicolo in fondo al campo dove un bulldozer aveva lasciato le
sue tracce sul fango. Seguimmo quelle orme fino a quando non
arrivammo a un centinaio di metri quadrati di terra appena arata. Sul
terreno c'era un tappeto di mosche e anche lì si sentiva il solito,
leggero, terribile odore dolciastro. Vedendo quel posto, sospettammo
tutti di che cosa si trattasse, una fossa comune scavata in fretta.
Notammo che le nostre scarpe cominciavano ad affondare nel terreno,
che sembrava liquido, quasi acquoso e tornammo indietro verso il
sentiero tracciato dal bulldozer, terrorizzati.
Un
diplomatico norvegese - un collega di Ane-Karina Arveson - aveva
percorso quella strada qualche ora prima e aveva visto un bulldozer
con una decina di corpi nella pala, braccia e gambe che penzolavano
fuori dalla cassa. Chi aveva ricoperto quella fossa con tanta
solerzia? Chi aveva guidato il bulldozer? Avevamo una sola certezza:
gli israeliani lo sapevano, lo avevano visto accadere, i loro alleati
- i falangisti o i miliziani di Haddad - erano stati mandati a
Shatila a commettere quello sterminio di massa. Era il più grave
atto di terrorismo - il più grande per dimensioni e durata, commesso
da persone che potevano vedere e toccare gli innocenti che stavano
uccidendo - della storia recente del Medio Oriente.
Incredibilmente,
c'erano alcuni sopravvissuti. Tre bambini piccoli ci chiamarono da un
tetto e ci dissero che durante il massacro erano rimasti nascosti.
Alcune donne in lacrime ci gridarono che i loro uomini erano stati
uccisi. Tutti dissero che erano stati i miliziani di Haddad e i
falangisti, descrissero accuratamente i diversi distintivi con
l'albero di cedro delle due milizie.
Sulla
strada principale c'erano altri corpi. «Quello era il mio vicino, il
signor Nuri» mi gridò una donna. «Aveva novant'anni.» E lì sul
marciapiede, sopra un cumulo di rifiuti, era disteso un uomo molto
anziano con una sottile barba grigia e un piccolo berretto di lana
ancora in testa. Un altro vecchio giaceva davanti a una porta in
pigiama, assassinato qualche ora prima mentre cercava di scappare.
Trovammo anche alcuni cavalli morti, tre grossi stalloni bianchi che
erano stati uccisi con una scarica di mitra davanti a una casupola,
uno di questi aveva uno zoccolo appoggiato al muro, forse aveva
cercato di saltare per mettersi in salvo mentre i miliziani gli
sparavano.
C'erano
stati scontri nel campo. La strada vicino alla moschea di Sabra era
diventata sdrucciolevole per quanto era coperta di bossoli e nastri
di munizioni, alcuni dei quali erano di fattura sovietica, come
quelli usati dai palestinesi. I pochi uomini che possedevano ancora
un'arma avevano cercato di difendere le loro famiglie. Nessuno
avrebbe mai conosciuto la loro storia. Quando si erano accorti che
stavano massacrando il loro popolo? Come avevano fatto a combattere
con così poche armi? In mezzo alla strada, davanti alla moschea,
c'era un kalashnikov giocattolo di legno in scala ridotta, con la
canna spezzata in due.
Camminammo
in lungo e in largo per il campo, trovando ogni volta altri cadaveri,
gettati nei fossi, appoggiati ai muri, allineati e uccisi a colpi di
mitra. Cominciammo a riconoscere i corpi che avevamo già visto.
Laggiù c'era la donna con la bambina in braccio, ecco di nuovo il
signor Nuri, disteso sulla spazzatura al lato della strada. A un
certo punto, guardai con attenzione la donna con la bambina perché
mi sembrava quasi che si fosse mossa, che avesse assunto una
posizione diversa. I morti cominciavano a diventare reali ai nostri
occhi.
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